“Gomorra” di Roberto Saviano è un libro, scritto attraverso il recupero di due elementi fondanti tutta la grande scrittura di denuncia e da esso posti a fondazione della sua operazione letteraria: l’individuazione di una realtà socialmente rilevante, quale appunto la camorra campana, tema di “Gomorra”, la sua descrizione ricorrendo al consolidato canone della grande tradizione ottocentesca dell’inchiesta sociale, attraverso la forma narrativa, che ha uno dei suoi esempi alti nello Zola di “Germinal” e il suo Omero in Balzac. E balzachiano è l’attacco di “Gomorra”: la visione del container trasferito, nel porto di Napoli, da una gru su una nave e che mal impattando con il ponte svela il suo contenuto di cinesi morti, rispediti in patria per esservi seppelliti facendo intanto posto ad altri cinesi che ne ereditano i dati anagrafici e il passaporto. In una elegante simmetria strutturale tra scrittura e realtà Saviano ci introduce nel suo racconto attraverso la descrizione del porto di Napoli, per dove transitano quasi due milioni annui di tonnellate di merci, che però sfuggono, per il 60%: il dato è dell’agenzia delle dogane, al pagamento del dazio e così attivando quei processi criminali che il libro poi ci descriverà , ma per spiegare la cui logica fondante sarà bene tener presente la sobria considerazione di Nell Kimball, una maitresse americana che nelle sue memorie insegna: non si gestisce un casino senza il consenso del potere state a tutti i livelli, dai vertici politici al poliziotto di quartiere. E così è per le merci che non pagano dazio nel porto di Napoli, ma raccontando la cui gestione dalla parte degli attori umani, anche proprio per la straordinaria forza narrativa del testo nel lettore, tende a restare in ombra la funzione centrale dell’assenza che permette e finisce perfin per dare una sorta di metalegittimità al crimine organizzato: l’assenza dello Stato. Di grande suggestione sono infatti le pagine dei nessi camorra-alta moda e dell’impatto dei cinesi su questo mondo. Come di nuovo balzachiano è il capitolo conclusivo sullo stoccaggio dei sottoprodotti altamente inquinanti dei processi industriali, ricostruito didatticamente intorno alla figura dello “stakeholder” Franco, mediatore tra la camorra e gli industriali padani. Franco è uno dei personaggi pienamente delineati e riusciti, con il cinese Xian e il tagliatore di abiti Pasquale: l’uomo che scopre di aver cucito per pochi euro e senza saperlo, l’abito indossato da Angelina Jolie per una notte degli oscar e che per protesta rifiuta di continuare a fare il sarto, getta via la sua arte e si trasforma in camionista, anche se sempre in un’altra impresa della camorra, in quanto chiuso entro la stessa logica totalizzante criminale dello scrittore dissidente ceco che si trasformava in badilante per non scrivere per il regime. Tra questi due estremi balzachiani di Gomorra si estendono i dolorosi capitoli nei quali la scrittura lotta con cataloghi omerici di cronaca giudiziaria, che reiterano nella struttura dei fatti sempre e soltanto due eventi criminale: traffico di droga e cementificazione del territorio. Il tema centrale di questi capitoli, la ragione che guida le bande criminali del napoletano è la confisca e controllo del territorio, a reclutare uomini e stoccare merci, ergo una vera e propria azione politica di sostituzione o almeno di coabitazione con il potere politico statale italiano. Due elementi irrisolti percorrono qui la scrittura di Saviano, a tratti impedendole la compiutezza stilistica dei primi capitoli e della chiusa: il tentativo di dare un resoconto esaustivo degli innumerevoli conflitti criminali locali e settoriali, il loro complicato intersecarsi e una insufficiente griglia esplicativa della logica sociale che li produce. La suggestione di Saviano, ma ancor di più della critica, è di proporre “Gomorra” come una scrittura capace di rilanciare la questione meridionale, sull’orma della grande inchiesta Jacini o di Giustino Fortunato; “Gomorra” è una sorta di nuovo “Cristo si è fermato a Eboli”, attraverso il quale ridare forma e forza alla Questione meridionale nella Repubblica. Negli studi di Jacini, Fortunato, Guido Dorso e ancora nel libro di Levi il Meridione risulta sconnesso e subalterno rispetto al resto del Paese, sorta di grande colonia interna, ma che esaurisce tale funzione coloniale e si trasforma in luogo di produzione di un ceto dirigente nazionale mentre trasferisce al Nord la mano d’opera a buon mercato per il cosiddetto “Miracolo economico” e, nel contempo, allo Stato italiano il grosso dei quadri della burocrazia. “Gomorra” si situa dopo questi eventi e indaga una struttura criminale altamente interconnessa con il mondo d’oggi, tanto da esserne un elemento nuovo di forte originalità . E infatti non è più Camorra il suo nome, ma il “sistema”. Un “sistema” che, come Saviano ben individua in tutti i capitoli del suo libro, è sempre soltanto una metà di una struttura solidale, proprio come produzione e mercato, la grande capacità di quello che ormai sappiamo da Saviano autodefinirsi il “sistema” a seconda delle relazioni in gioco capace di affermarsi come produttore, distributore, trasformatore, mediatore di merci in ragione di un potere esercitato e coniugato con una raffinata capacità imprenditoriale, che lo porta a muoversi finanziariamente in modo anfibio tra le isole della legalità e l’oceano del crimine. Discendendo poi alla struttura narrativa, il racconto di Carlo Levi è diretta conoscenza, contatto personale, filtrato da un codice di giudizio che si disloca più alto e sopra; e assimila il punto di vista dell’autore - filtrato dall’ironia e da una partecipazione - a quello dell’etnografo. Levi osserva un mondo sconfitto da un presente di sconfitto politico: è un antifascista confinato in un paese lucano, che però ritiene di portare una verità -possibilità capace di inglobare e riscattare anche il mondo degli offesi, di rappresentare quindi anche gli strati subalterni oppressi della società italiana meridionale, secondo quella logica laica dove si è espresso il momento più alto dell’antifascismo: l’antifascismo azionista. Saviano non scrive invece da un progetto alternativo. Netta è la sua condanna del “sistema”, cui non oppone una soluzione alternativa emendante, ma soltanto sue intuizioni frammentate, al centro della sua scrittura giudicante un incolmabile, sconsolato sdegno, che assimila la prospettiva stilistica di “Gomorra” a quella di un altro grande libro centrato sulla Napoli convulsa e degradata del crollo dello Stato italiano e dell’occupazione alleata; “La pelle” di Curzio Malaparte. Il comune denominatore tra questi due libri è l’assenza dell’istituzione Stato, in Malaparte ucciso dalla guerra fascista e dalla viltà della monarchia, in Saviano luogo di un’assenza, un vuoto nel quale si afferma la supplenza metapolitica del “sistema”, la cui natura di struttura surrogatoria dello Stato si coglie proprio nella sentenza di condanna emessa dal “sistema” contro Saviano, la vera colpa dello scrittore, il suo crimine non tanto aver raccontato, ricostruito, dato in “Gomorra” una mappa del “sistema”, quanto averne denunciato la totale illegittimità in ragione della radicale incapacità del “sistema” di rappresentare istanze di tensione morale a una convivenza civile. Il grande sforzo del “sistema” è di darsi come legalità surrogatoria, davanti all’incapacità dello stato di garantire la legalità , e culmina nel disastro trino della giustizia, dell’educazione e della sanità . Una legalità surrogatoria che ha la sua origine in quel varco, nel porto di Napoli, permesso dallo stato, per il quale passa e prende forma una circolazione delle merci parallela e concorrenziale a quella regolata dalle leggi dello Stato. Un “sistema” che, apprendiamo dalle pagine di Saviano, a darsi una sua metalegittimità , possiede una sua stampa e televisione prezzolate, che manovra nelle lotte di fazione e per dirigere l’opinione pubblica non disdegna una sua forma di mecenatismo, ma quando questo fallisce ricorre all’assassinio, come con don Peppino Diana, il prete che rinuncia a una carriera in Vaticano per mobilitare, con la sua parola, una lotta al “sistema” in nome di valori morali e religiosi biblico-evangelici. La morte di don Peppino Diana, il suo omicidio non è però la conseguenza della sua denuncia dei crimini del “sistema”. Don Peppino Diana viene ucciso perché la sua denuncia minaccia quella ridefinizione del “sistema” come metastasi integrata nello Stato. Come la Chiesa trionfante condannava gli eretici, così la camorra ha condannato don Peppino Diana. Secondo la stessa logica che ha portato nel XX Secolo ai brutali metodi inquisitoriali del nazifascismo e bolscevismo e oggi del terrorismo islamista. E la riprova l’abbiamo nella condanna a morte emessa dal “sistema” contro Saviano, simmetrica a quella comeinista contro l’autore dei “Versetti satanici”.